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Apologia della Pulizia Etnica al Wall Street Journal

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Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 9 aprile 2025 con il titolo Ethnic Cleansing Apologetics at the Wall Street Journal. Traduzione italiana di Enrico Sanna.

Quel genere ingannevole di commento giornalistico del tipo “sto solo ponendo una domanda” non è una novità. Pochi però sono moralmente ripugnanti come quello scritto da Sananand Dhume e pubblicato sul Wall Street Journal il dodici febbraio scorso (“If Indians and Pakistanis Can Relocate, Why Can’t Gazans?” Trad: Se indiani e pakistani possono andare a vivere altrove, perché non gli abitanti di Gaza?). Dhume si riferisce all’intenzione di Trump di appropriarsi di Gaza, espellerne gli abitanti, e ricavarne un’altra riviera, una Atlantic City o un set del Merv Griffin Show, o qualunque altra cosa che nella sua mente confusa stia per “alta classe”.

La “tesi” di Dhume, se così si può chiamare il suo rigurgito, è del tipo “non è giusto che siano solo gli altri”:

Molti sono i trasferimenti di popolazioni di quest’ultimo secolo. Nel 1920, Grecia e Turchia si sono accordate su uno scambio di popolazioni: greci ortodossi della Turchia si sono trasferiti in Grecia e Musulmani della Grecia sono andati a vivere in Turchia. Dopo la seconda guerra mondiale, milioni di indiani e pachistani sono stati costretti a trovare una nuova casa, così come le popolazioni tedesche in Cecoslovacchia e in Unione Sovietica. Nel 1970, l’Uganda ha espulso la popolazione indiana. Solo nel caso della Palestina la questione dei rifugiati marcisce senza fine.

Ha dimenticato il Sentiero delle lacrime.

Il fatto è che i casi citati sono un esempio degli orrori del moderno stato etnico, basato sul principio che ogni stato nazionale è lo Stato del Popolo X, per cui tutti quelli che non hanno quella identità etnica sono dichiarati ufficialmente Altro che contamina la Nazione. Tutte queste pulizie etniche di massa, espulsioni e scambi di popolazioni dimostrano solo che lo stato etnico e le ideologie associate sono un male. Quando a farlo sono paesi non alleati degli Stati Uniti, inoltre, generalmente il fatto è considerato un crimine di guerra. Quando a farlo fu la Serbia negli anni Novanta, la cosa fu presa a pretesto per i bombardamenti americani e il processo a Milošević per crimini di guerra. Quanto all’espulsione degli asiatici meridionali dall’Uganda negli anni Settanta, è curioso che Dhume non ne citi l’autore, un certo Idi Amin… il nome vi ricorda qualcuno?

Lo stesso Dhume ammette nell’articolo che la divisione di India e Pakistan portò allo sfollamento di diciotto milioni di persone e la morte di altri due milioni. Una persona moralmente sana non citerebbe questo fatto in un articolo in cui raccomanda la stessa pratica altrove. Strano anche che Dhume, che usa spesso la scusante “così fan tutti” per i crimini contro l’umanità, si limiti alla pulizia etnica. Perché mai? Perché non giocarsi tutto avallando il genocidio? Dopotutto, il passato è ricco di esempi, non dev’essere poi così difficile, no?

Dhume approfitta dell’argomento per sostenere la superiorità morale di Israele, con relativo doppiopesismo. I 600-700 mila palestinesi “che hanno abbandonato le loro case” (notare: non “che sono stati cacciati via dalle loro case”) nella fase di formazione di Israele, e i loro discendenti attuali, sono ancora oggi considerati rifugiati e non cittadini dei paesi in cui sono emigrati. Per contro, Dhume cita gli 800 mila ebrei mizrahì fuggiti o espulsi da paesi arabi e accolti da Israele come cittadini (“Israele non li ha mai tenuti in campi di rifugiati permanenti, né li ha mai usati come merce di scambio”).

C’è qualcosa di interessante dietro questa storia: quegli ebrei mizrahì non si sono presentati un giorno alle frontiere di Israele. Il fatto è che Israele è uno stato etnico ufficialmente ebreo, che garantisce a tutti gli ebrei “diritto di rientro” e cittadinanza automatica. Fu un attivo atto politico dello stato di Israele, non tanto accettare caritatevolmente i rifugiati ebrei dei paesi arabi che chiedevano di entrare, ma farne entrare il più possibile con tutti i mezzi. Nei paesi arabi c’erano agenti del Mossad in incognito che invitavano gli ebrei ad emigrare in Israele. Che gli attentati di Bagdad del 1950-51 fossero opera di estremisti antisemiti o di agenti del Mossad che intendevano accelerare l’emigrazione è qualcosa che lascio agli storici (Israele però ammette di aver fatto qualcosa di analogo in Egitto con l’“affare Lavon”). È piuttosto ipocrita che Dhume non l’abbia citato, no?

Altrettanto strano è che, dopo aver citato la richiesta del diritto di rientro dei rifugiati palestinesi, aggiunga: “Nessuno si aspetta che il Pakistan modifichi la propria demografia religiosa offrendo un ‘diritto di rientro’ ai discendenti dei rifugiati indù e sikh. Perché nel caso di Israele dovrebbe essere diversamente?” E questo senza citare il fatto che le leggi israeliane attuali concedono il diritto di rientro agli ebrei ovunque si trovino e nonostante vivano in quei luoghi da molte generazioni, e senza ricordare che l’intero progetto di uno stato etnico ebraico si basava sull’assunto che gli ebrei dovessero essere considerati rifugiati la cui vera patria, dopo secoli di allontanamento, era la Palestina. Anche questo è molto ipocrita.

Lo ridico: è l’idea di uno stato etnico che è fonte di crimini contro l’umanità. Prendiamo uno dei primi stati etnici moderni, la cosiddetta identità nazionale “francese”, un’entità artificiale creata attorno alla langue d’oil, parlata nell’Ile de France e poi imposta a tutti quelli che vivevano entro i confini della “Francia”, non solo a chi parlava varianti della langue d’oil nella Francia settentrionale, ma anche ai bretoni e ai meridionali che parlavano la langue d’oc. La Francia è solo un esempio tra i tanti. Frutto dell’identità nazionale ufficiale, ovunque questa sia stata inventata, sono cose come i convitti scolastici per nativi americani o l’obbligo per i giovani scolari di portare al collo un cartello con su scritto “Io parlo Basco (o aragonese, gallese, ainu, gaelico)”.

Gran parte delle pulizie etniche e dei genocidi del mondo post-coloniale è il frutto marcio di questa ideologia imposta dagli invasori. Studiosi come Edward Said, Nandita Sharma e Mahmood Mamdani spiegano come gli amministratori delle colonie agissero sulla base di presupposti ricavati dall’ideologia orientalista al fine di rendere più leggibili i dominati classificandoli secondo categorie etniche basate su un concetto essenzialista di etnia, dando alle autorità tradizionali un potere assoluto assolutamente antistorico, e più in generale governando la popolazione secondo principi etnici riduzionistici considerati più reali di quanto gli stessi individui fossero disposti ad ammettere. Gli stati territoriali precedenti la colonizzazione europea erano complessi e multietnici, le numerose etnie e le forme di identità politica coesistenti erano legate da una grande varietà di interrelazioni. Prima del dominio britannico, l’identità etnica e settaria non aveva nulla dell’assolutismo che acquisì con l’autorità coloniale.

Così Mamdani in Neither Settler nor Native:

La riscrittura della storia, i censimenti e le leggi crearono nuove soggettività, un nuovo passato, per i popoli colonizzati, alterando la loro condizione attuale e prefigurando un futuro che altrimenti non sarebbe mai arrivato. I colonizzatori scrivevano teorie razziali e distorcevano la storia locale per trasformarla in storia di popoli colonizzati; i concetti di razza e tribù, categorie europee, diventavano così fenomeni locali spontanei. Fu così che i colonizzati appresero di essere stati sempre divisi in fazioni rivali. I colonizzatori mapparono i colonizzati secondo queste categorie demografiche, rafforzandone l’identificazione razziale e tribale. Grazie poi a leggi applicate secondo le identità razziali e tribali, i colonizzatori erano certi che le future realtà sociali, economiche e politiche avrebbero rispecchiato queste distinzioni.

Il primato delle identità indù e musulmana fu quasi interamente un risultato del dominio britannico. Così Sharma in Home Rule:

Nel 1862, l’idea che indù e musulmani fossero popoli completamente differenti fu il prodotto dell’attribuzione, ad ognuna delle parti, di tradizioni, cultura, storia e abitudini separate. Il Raj britannico incorporò il concetto nelle istituzioni attribuendo potere a presunti guardiani della tradizione (principi, sacerdoti e proprietari terrieri), consolidando così il dominio autoritario britannico. In tutto ciò rientrava l’approvazione di “codici personali” o di “leggi personali” separate. Le questioni “civili” (“personali”) di indù e musulmani dovevano essere affidate ad autorità Native diverse, istituite dai britannici ma presentate come se fossero emanazione delle rispettive “tradizioni” dei due gruppi. Nel corso del decennio successivo (1862-’72) ulteriori riforme giuridiche e amministrative furono approvate al fine di “preservare” e “proteggere” i due gruppi ora diventati diversi. I britannici crearono deliberatamente nuove identità, comunitarie e individuali, istituzionalizzando, come mai era successo prima, l’importanza della religione nella vita sociale e politica.

Lo stesso vale per la divisione tra Hutu e Tutsi, tra i cristiani del Sudan meridionale e tra i Rohingya: in tutti questi casi, le attuali ostilità possono essere fatte risalire all’attività di radicalizzazione e esasperazione delle identità fatta dalle autorità coloniali, che in seguito trasformarono tali identità in strumento di dominio sulla base del principio divide et impera.

Dhume definisce l’insieme di orrori generati dal moderno stato nazionale come storia normativa, una storia di cui si serve per giustificare ulteriori orrori. “Che il male sia il mio alleato”. Sadanand Dhume ha da tempo esaurito qualsiasi capacità di provare vergogna. Che si vergogni almeno chi ha autorizzato la pubblicazione di questo sermone sul Wall Street Journal.

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Source: https://c4ss.org/content/60351


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