Diversità e Armonia
Di Trevor Hauge. Originale pubblicato il 7 aprile 2025 con il titolo Diversity and Harmony. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.
Parallelo alla lotta tra capitalisti e lavoratori è il conflitto tra chi vorrebbe una società plurale e diversa e chi la vorrebbe uniforme e omogenea. Il pluralismo è una dottrina consolidata. Lo troviamo in grado diverso in varie ideologie: liberalismo, anarchismo, socialdemocrazia; anche certe varianti del liberalismo di destra contengono aspetti pluralistici. Al polo opposto troviamo dottrine che predicano uniformità e ortodossia, e che vanno sotto nomi diversi: conservatorismo, tradizionalismo, perennialismo, integralismo, fino all’estremo rappresentato dal fascismo. Visto che parliamo di tendenze storiche generali che trascendono le ideologie particolari, chiameremo i primi pluralisti e i secondi uniformisti, che come frullatori riducono i vari elementi ad una sostanza uniforme.
Secondo gli ideologi dell’uniformità, la diversità causa inevitabilmente conflitto, dunque servirebbero valori culturali condivisi che diano vita ad una società unita. Se ognuno crede in un dio diverso, se non concordiamo sul numero dei sessi, se non parliamo tutti la stessa lingua e non concepiamo la famiglia allo stesso modo, la società precipita nel caos e, dio non voglia, nell’anarchia! Gli uniformisti considerano i pluralisti, indifferenti alla necessità di una coesione sociale, una minaccia. In realtà i pluralisti pensano che la coesione venga da valori più ampi, come la libertà, l’uguaglianza, la giustizia e la solidarietà, che fanno da collante sociale.
È importante notare, però, che per i pluralisti non basta mettere insieme persone che non rispettano le differenze per ottenere ipso facto una società stabile. Sanno che occorre qualcosa che generi stabilità. La soluzione varia a seconda dei gruppi ideologici (liberalismo, anarchismo, libertarismo e così via), ma in generale si concorda sul fatto che sistemi valoriali diversi possono convivere se accettano un ampio sistema di valori metaculturali che enfatizzano il rispetto della diversità e degli stili di vita particolari. In un mondo pluralistico, ogni individuo può avere il suo spazio culturale purché non invada lo spazio altrui. Non si tratta di rinunciare alla propria vita e assimilarsi agli altri, ma di capire che accettare la diversità culturale o religiosa è un vantaggio reciproco e conduce ad una esistenza migliore.
In altre parole, condividendo valori più ampi le persone possono vivere assieme e difendere le rispettive autonomie. Tu puoi essere un cristiano integerrimo o un musulmano devoto e io un ateo bisessuale purché ognuno rispetti la differenza altrui e non ricorra alla legge (ovvero, alla forza di stato) per imporre la propria volontà. Possiamo anche unire le nostre forze e difendere il diritto di ognuno di essere diverso, e far nascere una forma di coesione sociale solidaristica e spontanea. Una coesione basata sulla volontà, che sorge spontaneamente dalla difesa della comunità e dal mutuo soccorso. Non serve avere la stessa esatta identità, neanche una vagamente simile, se il punto d’incontro è il desiderio di autonomia e il bisogno innato di aiutarci l’un l’altro.
Pensiamo ai ribelli zapatisti del Chiapas, in Messico. Libertari socialisti indigeni e meticci che si sono ribellati allo stato messicano in risposta alle privatizzazioni imposte dal Nafta. Parlano lingue diverse. Secondo il censimento del 2010, il 38,1% degli indigeni parla Tzeltal, il 34,5% Tzotil, il 15,9% Chol, il 4,5% Zoque, il 4,4% Tojolabal, lo 0,7% Mame, lo 0,5% Kanjobal e l’1,3% altre lingue.[1] Cinquantadue lingue diverse! Secondo Alex Khasnabish, autore di Zapatistas: Rebellion From the Grassroots to the Global, il rispetto per la diversità è parte integrante dell’ideologia zapatista, la struttura politica, il concetto stesso di giustizia:
Il concetto zapatista di ‘giustizia’ non è nella giusta applicazione della legge, e neanche in una riforma del sistema giudiziario, ma in una società in cui ognuno è trattato secondo gli standard primari di dignità e rispetto. I concetti zapatisti di democrazia, libertà e giustizia poggiano su una visione del mondo come luogo caratterizzato da molteplicità e diversità, una visione riassunta efficacemente dallo slogan zapatista ‘queremos un mundo donde quepan muchos mundos’, vogliamo un mondo che contenga molti mondi (Navarro 1998, pag 162). Una società ‘giusta’ non si limita ad accogliere le differenze, ma riconosce che differenze e molteplicità sono caratteristiche essenziali della vita, non concetti da tollerare.
Per gli zapatisti, l’enfasi sulla ‘uguaglianza’ va di pari passo con il concetto di ‘giustizia’: la negazione netta di qualsiasi tentativo di standardizzare o uniformare le persone. Così uguaglianza non significa ridurre a uno ma apprezzare e rispettare le differenze e l’autonomia della persona.[2]
L’organizzazione zapatista ruota attorno ad una confederazione di assemblee di villaggio che impiegano un misto di governo diretto e consociativo in cui tutti i maggiori di sedici anni hanno voce su questioni riguardanti la comunità. Metà del Chiapas è governato da questo sistema. È dal 1994, dopo aver combattuto lo stato messicano e i cartelli della droga, che viene adottato questo modo di vivere anarchico. Se c’è un’incompatibilità di fondo tra coesione sociale e diversità, se diversità significa crollo della società, come fa una società astatuale fondata sul rispetto della diversità a difendersi, per trentun anni, da uno stato militarista ben armato logisticamente e tecnologicamente più avanzato? Società uniformanti come la Germania nazista e l’Italia fascista hanno avuto vita breve, alla faccia delle razze padrone e della presunta superiorità dell’uniformità.
Forse l’esperienza zapatista non basta a convincere che un insieme di persone diverse può mettere da parte le differenze e unirsi in armonia per lungo tempo per un fine comune e difendendosi dagli attacchi. Vediamo allora un’altra confederazione socialista libertaria, nella Siria settentrionale e orientale, Rojava, in cui persone di lingue, religioni ed etnie diverse non solo hanno scelto di convivere ma combattono coraggiosamente il terrore uniformista dell’Isis dal 2012. È probabile che se non fosse stato per l’YPG e l’YPJ di Rojava l’Isis avrebbe dominato più a lungo. C’è poi la Confederazione Elvetica, con le sue quattro lingue parlate in altrettanti cantoni. La confederazione nasce il 12 settembre 1848, 177 anni fa. In forma statuale o no, una società simile non potrebbe esistere a lungo senza un rispetto di fondo per le diversità insite nelle sue culture.
Dato tutto ciò, non è difficile concludere che, assieme ai sistemi di classe e agli apparati statuali, l’ideologia uniformista è tra quelle che contribuiscono maggiormente al conflitto, nemico principale di quell’armonia che, ironicamente, cerca di ottenere. La seconda guerra mondiale, che ha ucciso cinquanta milioni di persone, è iniziata, tra l’altro, con l’ossessione di una cultura dominante uniforme. Hitler e i suoi credevano che la pace e l’armonia, fossero possibili solo se tutti fossero stati tedeschi patriottici, devoti a dio, biondi e con gli occhi azzurri. Un’idea che ha portato morte, distruzione e dissoluzione del tessuto sociale. Ancora peggio è l’ondata di conflitti tribali che da allora infiammano il mondo. Come il genocidio dei palestinesi portato avanti dallo stato etnico israeliano, quantomai forza uniformante di primo piano.
Il movimento sionista, che prima dell’olocausto godeva di un certo consenso, in seguito ha acquisito popolarità e impulso. Inizialmente, alcuni ebrei della diaspora vedevano nel nascente stato ebraico uno strumento necessario ad ottenere sicurezza in un mondo deciso a distruggerli senza una ragione. Posso solidarizzare, anche se vedo i difetti insiti in quella soluzione. A volte le persecuzioni spingono le persone verso soluzioni nazionalistiche che portano all’uniformità e al tribalismo. Ma spesso succede che le soluzioni nazionalistiche portano i perseguitati a diventare come i loro vecchi persecutori, ed è questo che è successo al movimento sionista. Mentre scrivo, Israele continua a bombardare a tappeto Gaza. Trump, il più potente alleato dello stato sionista, parla apertamente di pulizia etnica a Gaza.[3] Una parte degli oppressi, sull’onda dell’olocausto e in risposta al trauma, ha deciso di diventare oppressore. Altri ebrei della diaspora hanno rifiutato e rifiutano nazionalismi e uniformismi, una scelta migliore a lungo andare. Il conflitto israelo-palestinese non finirà con la pulizia etnica di Gaza. In risposta alle atrocità dello stato israeliano, molti sopravvissuti palestinesi finiranno per appoggiare il campismo xenofobo di Hamas; posso solidarizzare con loro per la sofferenza, ma riconosco che l’ideologia di Hamas ha lo stesso problema del sionismo: una tendenza uniformante. È un circolo vizioso che solitamente inizia quando una maggioranza dominante cerca di imporre la propria cultura a una minoranza.
Immaginiamo due gruppi, A e B, ognuno dei quali ha in sé due movimenti incompatibili tra loro: un movimento uniformista che vuole una sola cultura dominante, e un movimento pluralista che lascia che culture diverse convivano autonomamente. La prevalenza del secondo, in virtù della sua cultura della convivenza, significa maggiore probabilità di risolvere pacificamente i conflitti. Le relazioni non diventano un gioco a somma zero in cui la cultura dominante può essere una sola. La visione uniformista crea una mentalità paranoica e angosciante, che si inasprisce con la scarsità materiale.
Al contrario, un gruppo pluralista tendenzialmente non vede negli altri una minaccia a meno che non ci sia una ragione valida; ma anche in questo caso la soluzione diplomatica è più probabile della violenza. Il rischio di conflitti cresce quando in un gruppo si afferma la mentalità uniformista. Anche in questo caso, però, può prevalere la calma se l’altro gruppo si mantiene saldo ai propri valori di convivenza, dando così al primo la possibilità di risolvere la questione internamente. Questo non significa che il conflitto è sempre evitabile, ma solo che può essere contenuto. Cosa succede invece quando entrambe le parti hanno una mentalità uniformista? Conflitto, disordine, annientamento sono risultati pressoché certi, dato l’odio innato di ognuno verso l’ideologia uniformante dell’altro.
La stessa logica vale non solo per le relazioni tra gruppi diversi, ma anche per le dinamiche all’interno dello stesso gruppo. L’ideologia uniformista aumenta le frizioni. Da pluralista, vado d’accordo con altri pluralisti a prescindere dalle loro idee perché tutti crediamo nel principio di base vivi e lascia vivere. Io vivo la mia vita e loro la loro. Noi difendiamo il nostro diritto di vivere così, ed è per questo che nonostante le differenze possiamo sentire solidarietà reciproca. È il nostro amore per la libertà individuale a unirci e creare armonia. Non importa se parliamo lingue diverse o crediamo in divinità diverse (o in nessuna), se per noi la famiglia ha forme diverse o se abbiamo un diverso colore della pelle. È l’ideologia dell’uniformità che porta alla profezia che si autoavvera, quella della violenza, del settarismo, dell’oppressione, insomma della discordia. Il conflitto è il risultato probabile perché per eliminare la diversità l’uniformità ha bisogno della forza. Eliminare tutte le differenze, controllare tutte le variabili è impossibile, il ricorso alla forza è inevitabile quando il potere diventa la principale forma di relazione che governa una società. Questo perché i gruppi dominati e assimilati non hanno altra scelta che difendersi e esacerbare il conflitto.
La pressione esercitata dal conflitto può purtroppo spingere le minoranze oppresse a adottare il campismo come forma di autodifesa. Quando la maggioranza prende di mira una minoranza, fa capire ai suoi componenti che non sono più un gruppo, il che può scatenare una risposta violenta. Presi di mira dallo stato e emarginati da una grossa porzione dell’opinione pubblica, parte dei palestinesi che vivono negli Stati Uniti vede come alleato chiunque sia contro Israele e il suo alleato imperialista, gli Stati Uniti, fino a comprendere imperialismi rivali come la Russia, la Cina e i suoi alleati, la Corea del Nord e l’Iran. Ma è un errore strategico, perché questi stati o praticano l’espansionismo territoriale o opprimono le minoranze tanto quanto gli Stati Uniti. Entrambe le cose, nel caso della Russia. In questo come in altri casi, le forze uniformanti che hanno avviato il conflitto approfittano di questi errori strategici per accusare le minoranze di inaffidabilità, aumentando così il senso di alienazione. Con l’intensificarsi del conflitto, purtroppo, la profezia si autoavvera.
L’aspetto positivo è che le ideologie uniformanti non sfuggono all’inevitabile entropia. Anche quando riescono ad imporre un controllo totalitario, credendo di essersi finalmente liberate degli “elementi sovversivi”, le fazioni uniformiste si ritrovano pian piano a perdere il controllo perché non riescono ad impedire che nascano nuove fazioni, da cui nuove rotture. Differenziarsi è nella natura umana! Quando i nazisti salirono al potere, dovettero subito epurare i seguaci di Strasser e Rohm per evitare lotte intestine. Idem i bolscevichi che, pur non adottando l’uniformità etnica, credevano fortemente nell’uniformità ideologica producendo risultati simili: fazionalismo, epurazioni, lotte intestine, conflitti, fino alla disintegrazione finale. L’uniformità imposta con la forza non può mai durare a lungo, siamo individui, ognuno ha un suo modo di pensare, è inevitabile. Quando sembra che tutti stanno dalla stessa parte, ecco che salta fuori la deviazione e quell’equilibrio fragile crolla; perché la diversità di opinioni, e soprattutto di identità, non è tollerata; cominciano gli odi reciproci e a volte gli oppressi e i loro alleati possono trovare un’opportunità di ribellione. Forse solo con una sorta di coscienza collettiva è possibile realizzare una uniformità stabile. E forse è proprio questo l’obiettivo finale dello stato di polizia tecnofascista.
A volte questo conflitto pluralisti-uniformisti viene assimilato al conflitto tra atei e credenti, ma così non è. Nei primi anni Duemila i Nuovi Atei cercavano di inquadrare la violenza in Medio Oriente in termini di lotta tra selvaggi credenti di una religione orientale e laici occidentali eredi dell’Illuminismo. Un esempio di questo pensierro lo troviamo in Richard Dawkins, nelle prime pagine del suo The God Delusion del 2006:
A gennaio 2006 presentai per la televisione inglese (Channel Four) un documentario in due parti intitolato Root of All Evil? Il titolo non mi è mai piaciuto. La religione non è all’origine di tutti i mali, perché niente è all’origine di niente. Il fatto però è che mi entusiasmava la pubblicità fatta da Channel Four sui quotidiani nazionali: il profilo di Manhattan con la scritta ‘Immaginate un mondo senza religione’. Con le torri gemelle ben in vista. Immaginate appunto, come John Lennon, un mondo senza religione. Niente attacchi suicidi, niente undici settembre o sette luglio, niente crociate, niente caccia alle streghe, nessuna Congiura delle polveri, nessuna divisione dell’India e niente guerre tra israeliani e palistinesi, nessun massacro tra musulmani e serbo-croati, nessuna persecuzione degli ebrei ‘uccisori di Cristo’, niente ‘disordini’ in Irlanda del Nord, nessun ‘delitto d’onore’ e nessun televangelista dai capelli a cofano che cerca di imbrogliare la gente (‘Dio vuole che voi doniate tutto’). Immaginate un mondo in cui non ci sono talebani che fanno saltare in aria monumenti antichi, nessuno che decapita i blasfemi o frusta la pelle delle donne per averne mostrato un centimetro di troppo.
Non dico di non averci mai creduto anch’io. Da giovane, ateo qual ero, mi sentivo particolarmente in sintonia con questo libro. Il castello teorico ha cominciato a crollare quando ho cominciato a studiare la storia delle rivoluzioni. Dawkins dice senza religione non ci saranno decapitazioni, ma basta dare uno sguardo alla rivoluzione francese per capire quanto è sciocca l’affermazione. E il conflitto israelo-palestinese? Non esisterebbe? Per quale ragione il colonialismo non avrebbe ragione d’esistere senza religione se anche l’Unione Sovietica ne ha fatto a meno? Chiedetelo agli ucraini, o agli ingusci. Per quanto io sia ateo, e approvi l’eliminazione dei fondamentalismi religiosi, la questione non è semplicemente atei razionali contro religiosi irrazionali. È l’ideologia uniformista, presente nelle fedi tanto religiose quanto atee, che porta al conflitto.
Date le mie inclinazioni tra l’individualismo e l’anarchismo sociale, non condivido pienamente le conclusioni ultraindividualistiche dell’anarchico Josiah Warren, ma riconosco un fondo di verità quando dice che “più che l’’unità’, è inevitabile una diversità infinita”.[4] Io cambierei l’espressione e direi che la diversità infinita e l’unità non si escludono necessariamente, e che nella società alla diversità deve essere garantito un ampio spazio. Il conflitto nasce quando una parte non ha spazio e viene soffocata dalle forze uniformanti. Quando l’autonomia è negata, non resta che la lotta, che in ultima istanza diventa fonte di solidarietà e porta spontaneamente all’armonia. Da anarchico, non mi illudo sulla capacità di una società, astatuale o meno, di durare per sempre. Sappiamo che il cambiamento e l’entropia sono inevitabili. Le società emergono e declinano, vanno e vengono come le maree. Questo è il bello dell’“anarchia” intesa in senso colloquiale e politico. Ma non per questo dobbiamo disperare e cadere nel nichilismo, accelerando l’entropia; dobbiamo invece creare sistemi che siano dinamici e pluralistici, che permettano ai tanti modi d’essere divergenti di svilupparsi grazie al rispetto della diversità. Se l’anarchia può diventare ordine, il rispetto per la diversità può diventare unità. Chi vuole la coesione sociale dovrebbe volere il pluralismo, non l’uniformità. L’uniformità non è la soluzione, è il problema.
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Note
1. “Chiapas: Forever Indigenous”, John Schmal, Indigenous Mexico.
2. Zapatistas: Rebellion From The Grassroots To The Global by Alex Khasnabish, pag. 91.
3. “Trump doubles down on plan to empty Gaza. This is what he has said and what’s at stake.”, Lee Leath, AP News.
4. The Motives for Communism, Josiah Warren, Anarchist Library.
The Center for a Stateless Society (www.c4ss.org) is a media center working to build awareness of the market anarchist alternative
Source: https://c4ss.org/content/60417
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